buzzoole code A Paul's Life: luglio 2010

martedì 20 luglio 2010

Una questione di fede

ovvero Mettersi Lost alle spalle

“It only ends once. Anything happens before that it's just progress” (Finisce solo una volta. Qualsiasi cosa succeda prima di allora, è solo progresso).
Lo diceva Jacob, all'inizio della catena di eventi che avrebbe portato un aereo di linea "qualunque" a schiantarsi su un'Isola deserta, e i suoi passeggeri ad affrontare... il miglior periodo delle loro vite. Paradossale, eh?
Non c'è bisogno di dirlo: in questo post noioso, arrogante e prolisso si parla di Lost, di cos'è stato, dell'esperienza intensa di uno dei suoi spettatori più affezionati – e proprio per questo, feroci. Quindi pussa via che poi vi spoilerate.
Dicevamo... eccoci, siamo alla fine del viaggio, forse non completamente soddisfatti – specie del viaggio di ritorno –, ma sani e salvi. E un po' più turbati di quanto credessimo, se tutto è andato come previsto.
Ma cos'è stato Lost, cos'è stato questo pezzo di vita interplanetario?
Oso dire che è stata la conferma definitiva della Magia delle Storie, del loro potere immenso. E, personalmente, la celebrazione del motivo per cui le amo così tanto.
E anche del perchè c'è gente (come il sottoscritto) che vuole guadagnarsi da vivere raccontando al mondo che, in fin dei conti, i suini possono decollare.

La ruota per asini congelata
Partiamo dai danni strutturali.
La solidità di un edificio si vede alla fine della costruzione. Lost è partito con un progetto promettente, dai preventivi il miglior edificio di sempre, ma ogni piano sembra essersi allargato in modo sproporzionato rispetto al precedente. Il risultato è una piramide al contrario conficcata nel terreno. E le piramidi al contrario, si sa - per quanto ben conficcate - cadono.
Alla fine del viaggio, insomma, è evidente come il percorso si sia "perso" rispetto alle premesse: quella che è fondamentalmente una grande storia di maturazione ed elevazione collettiva è stata deviata dalla tensione generata – esattamente come il metano – dallo stratificarsi di intrecci, coincidenze e ammiccamenti a una pesante mitologia (e con mitologia intendo tutti gli elementi che originano e giustificano la storia che ci viene raccontata).
E quali erano le premesse? Prendere un'idea piuttosto banale come quella del naufragio sull'Isola deserta, e aggiornarla alla versione 2.0. Una situazione da Signore delle Mosche diventa una storia di persone in pieno travaglio esistenziale, traghettate attraverso numerose imprese e patimenti a un piano superiore delle loro esistenze. Una tragedia moderna, senza troppi fatalismi e sacrifici, insomma. Il tutto, raccontato portando alle estreme conseguenze lo svilupparsi progressivo di trame e sottotrame. Di questo parleremo meglio più tardi, torniamo ai problemi.
In breve, abbiamo visto una prima stagione eccellente sotto ogni punto di vista, accessibile da vaste fette di pubblico e dalla freschezza del formato, seguita da una seconda stagione eccezionale, coraggiosa e saporita, per portata tematica e scopi raggiunti, probabilmente il condensato dell'intera serie.
Alla terza stagione, l'edificio ha cominciato a mostrare le crepe: la struttura, che necessitava una programmazione chirurgica, si è vista mancare ossigeno per colpa di una limitata lungimiranza, della rete e degli autori. È diventato evidente come il Piano troppo vago e la mancanza di coraggio della rete (David Fury, tra i produttori della sola prima stagione, testimonia come alcuni pesanti accenni all'elemento viaggio nel tempo siano stati sabotati dal network ABC, che temeva che la componente fantascientifica potesse danneggiare gli ascolti all'epoca astronomici) rischiassero di snaturare così tanto la serie da costringere tutti a correre ai ripari, fissando una data di scadenza per l'operazione.
Però il danno era già stato fatto: per usare una terminologia tecnica, era crollata la "sospensione dell'incredulità". In poche parole, lo spettatore medio non riusciva più a essere convinto della "credibilità" di ciò che vedeva, perchè la storia stava letteralmente strabordando rispetto alle sue premesse. Mi sono vantato a lungo di essere un "credente", perchè tutto sommato la faccenda Desmond non mi era mai sembrata così smaccatamente lontana dalle premesse - dopo tutto, c'erano mostri misteriosi che si mangiavano gente fin dalla prima puntata -, ma è una lamentela tutto sommato comprensibile, vista la violenta sterzata con cui il viaggio nel tempo è stato introdotto. Scusate la deviazione..
Da allora, Lost è diventato più organico, certo, ma ha cominciato a impazzire, a perdere l'orientamento. Un esempio su tutti: solo dopo quasi due anni ci si è accorti che la quinta stagione, fondamentalmente, è stata una stagione di allungamento di brodo, che alcune sottotrame erano dei totali vicoli ciechi, nonostante si presentassero come assolutamente indispensabile. E ancora peggio, tutto questo è sfociato nella barata più totale del nesso Incidente-Aldilà (non commenterò oltre la questione, ma tutta la sesta stagione è, da questo punto di vista, una sontuosa presa per il culo).
Il ciclo perverso di Lost è stato alimentato dall'autocompiacimento dei suoi due demiurghi, Damon Lindelof e Carlton Cuse, troppo esaltati dal loro motore narrativo potenzialmente inesauribile. Si è preferito giocare d'accumulo, aggiungere segni ambigui di una mitologia diventata troppo concreta e onnipresente da poter essere credibile (perchè tirare in ballo gli Egizi o i Romani?! È il massimo di arcaico e ancestrale che vi viene in mente per giustificare tutto sto popò di casini?), oltre che, banalmente, risolvibile in termini pratici: certo, tutti si aspettavano di non avere tutte le risposte, ma quantomeno indirizzare le questioni decisive... Beh, molte rimangono sensate anche senza particolari risposte – d'altronde, cercare ogni risposta equivale a rinunciare all'“aura” e magia di molte storie (Alice in Wonderland docet).
Ecco quindi il perchè di un finale perfetto dal punto di vista tematico, ma giunto al culmine con fatica, dopo tre stagioni di progressiva stanchezza, culminate nella pigrizia totale della Stagione Finale.

La Scatola Magica
Parliamo ancora un po' della meccanica che ha reso Lost un prodotto di successo. Come diceva McLuhan, il mezzo è il messaggio, è per Lost è vero fino alle estreme conseguenze.
Cos'è cambiato con Lost? Fondamentalmente niente che non stesse già per accadere, solo che si sono accorciati i tempi.
Se ricordate i telefilm della vostra infanzia (quelli vecchi, come Supercar, Hazzard, La signora in giallo, ecc.), raccontavano fondamentalmente storie autoconcluse (ovvero autonome e risolte nell'ora scarsa del loro svolgimento), con un drappello di personaggi più o meno fissi e bidimensionali, regia e sceneggiature perfettamente lineari e modulari. E per forza di cose, molto ripetitive.
A metà degli anni 80, le cose cominciano a cambiare: le serie televisive americane tentano di diventare più accattivanti, con personaggi più complessi, che spesso attraversano, nell'arco di intere stagioni, cambiamenti anche importanti. È l'inizio della cosìddetta soapizzazione dei serial, con l'introduzione di trame, sottotrame e personaggi a lungo termine, senza però allontanarsi troppo dalla formula autoconclusiva. Un esempio recente: le prime stagioni di House seguivano questa logica.
Sul finire degli anni 90, serial come The Sopranos hanno accantonato l'autoconclusività degli episodi, che diventavano tasselli fondamentali di un disegno più grande. Esattamente come le soap operas.
A metà dei 2000, il passo ulteriore, l'abbandono della linearità. Lost non ha inventato niente, certo, ma ha portato in televisione e a un largo pubblico delle modalità di narrazione da film d'autore (certo, sto esagerando): le già citate linee narrative di lungo respiro vengono tritate e frullate in una narrazione costantemente a due tempi (che sia il presente, il futuro o il “possibile”), investendo molto sulla recettività e sulla fede(ltà) dell'audience (e capitalizzando con intelligenza anche sulla possibilità di ingannarlo, come dimostra il finale della terza stagione), raramente lineare e didascalica, con ellissi a vari livelli. Sembra poco oggi, ma fino a sette, otto anni fa era completamente impensabile per un canale televisivo che è il corrispettivo americano di RaiUno.
Certo, il quid di Lost (del primo Lost, quello delle prime due stagioni), a parte la questione narrativa, sta in una miriade di fattori: nella brillantezza dei personaggi, nel loro essere simbolici e al contempo credibili; nell'altissimo livello medio di scrittura, sorretto a meraviglia da dialoghi vibranti, intreccio puntuale e fresco, quasi la macchina da storie perfetta; nella regia, essenziale ma non ruspante, che sa quando concedersi qualche effetto un po' sborone; nella recitazione vibrante; nelle musiche, le più ispirate e originali da tempo, un'amalgama di armonia e ossessione.
Ma soprattutto lei, la Scatola Magica. Il fascino inesauribile e incontenibile dell'ignoto, un gioco (o una presa in giro) senza fine con ciò che rende l'essere umano una creatura fantastica: la curiosità. Come si diceva, il mezzo è il messaggio: il messaggio di Lost è fondamentalmente di foraggiare la propria spiritualità, di "avere fede" nella propria curiosità, di essere strumenti della propria ricerca personale. E non si chiede nulla di meno nemmeno agli spettatori.
Strano, forse la questione capitale in Lost tra scienza e fede si risolve tutta lì, nella curiosità.

La (nostra) patetica, piccola vita
Nessuna storia è davvero realistica, è impossibile ricreare la realtà quando si racconta una Storia. È per questo che esistono i quotidiani, o i reportage, o i documentari: per raccontare o analizzare certi aspetti della realtà secondo certi punti di vista. Le Storie interpretano la realtà, prendono in prestito alcuni suoi elementi e li rielaborano in una forme più digeribili e/o entusiasmanti, ed è proprio questa forma più semplice e meno problematica a rendere possibile letture diverse a livelli diversi, applicabili anche al quotidiano.
Storie totalmente autoreferenziali o fini a se stesse, appiattite su ciò che rappresentano insomma, o lo sono deliberatamente (e non c'è niente di male) o sono “mal consigliate”. E proprio per questo, le storie, se prese con il giusto peso, hanno un potere che non è solo quello di farci fantasticare o viaggiare o divertire, ma è quello di aiutarci in modo insperabilmente concreto – quasi subliminale - nelle nostre vite. Non si sta parlando di “morale”, attenzione, ma di problemi e questioni che possono presentarcisi davanti a ogni angolo.
Nell'anima di Lost, come già accennato, c'è la volontà di raccontare la storia di persone credibili, certo, ma non reali. Hanno problemi e dilemmi terribilmente vicini ai nostri: come noi sono Perse non solo nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo che ha saggiamente scelto di non essere più regolato da termini etici o sociali assoluti, ma che, forse per pigrizia, non è ancora alla ricerca di valori sostitutivi all'altezza.
Ovvio, non è roba risolvibile per televisione (che ha anche altre esigenze), ma, come si suol dire, sollevare la domanda è più importante dell'avere la risposta. E non è un caso che i riferimenti al mondo della religione, della filosofia e della letteratura siano molteplici.
Ad ogni modo, Lost ha provato a consigliare il senso del Valore in un mondo ormai post-religioso, che pertanto necessita costantemente di ricordare le sue priorità, i suoi punti di orientamento. È per questo che i personaggi hanno origini diverse, percorrono strade così tortuose prima di arrivare al punto dell'illuminazione, di una comprensione superiore, che non è la ricerca tanto di un nirvana o cos'altro... ma in un abbraccio collettivo.
Ma in un mondo post-religioso va sempre e comunque fatto salvo il fatto che nessuno ha mai realmente ragione, ma tutto ha un senso. Neanche io in questo post gargantuelico, per dire. Tutti devono passare attraverso sbagli, illusioni, dolore, peccati, sacrifici, sangue per “guadagnarsi il Paradiso” - comunque lo intendiate.
Cito uno dei manuali di mitologia comparata più famosi e sfruttati da scrittori e narratori in genere, L'eroe dai mille volti di Joseph Campbell: "L'individuo [...] si libera da ogni attaccamento alle proprie limitazioni personali, alle proprie idiosincrasie, speranze e paure, non si oppone più al proprio annullamento, indispensabile per rinascere nella conoscenza della verità, ed è finalmente pronto per la grande conciliazione. Annientate le proprie ambizioni personali, egli non cerca pià la vita, ma spontaneamente si abbandona che può accadergli". È questo il significato di tutte le pratiche religiose, è questo il significato di moltissime Storie.
Che Lost ci sia riuscito a porre la "questione spirituale" in ognuno di noi, penso dipenda da quanto sia riuscito a penetrare nella scorza di ognuno di noi, daquanto sia riuscito a bucare il nostro scetticismo.
Personalmente, molto. Io ho vissuto questi sei anni al fianco di John Locke, nel bene o nel male, c'era qualcosa nelle nostre "sofferenze" di dolorosamente simile, e forse universale. C'era qualcosa nel suo andare avanti nonostante non sapesse la strada, nella sua gratitudine immensa per la nuova possibilità ricevuta, nelle sue crisi di fede... era lì, era vivo, c'ero anch'io in lui.
Va beh, non divaghiamo.