buzzoole code A Paul's Life: gennaio 2010

giovedì 7 gennaio 2010

La polvere

Questo racconto ha circa otto anni, le ultime revisioncine risalgono a un paio d'anni fa, ma essenzialmente poco è cambiato: ha tutti i pregi e i difetti della scrittura di un sedicenne.
Lo pubblico, non so perchè ho voluto aspettare così tanto, non so nemmeno perchè lo faccio proprio oggi.

La polvere

Ci sono notti in cui le stelle non sono in cielo, ma te le trovi sparpagliate all'orizzonte. È in notti come questa, in cui le nubi del pomeriggio appena passato non sono che sfumature di blu siderale dietro cui si nasconde qualche timido astro, che gli esseri umani subiscono la tentazione di provare a respirare, a ricordare, a pensare.
Ed è lecito. È lecito anche per i reietti, gli emarginati, che probabilmente di questi cieli si nutrono più avidamente, che di questi cieli sanno calcolare spazi e profondità, che di ogni stella sanno vedere i pianeti.
Ed è importante. È importante per loro che amano la pioggia, i cieli cupi, e le notti senza stelle.

Se aveva qualcosa di veramente suo, era il nome.
Fior.
Si svegliò di soprassalto, e, non dandosi neanche il tempo di aprire gli occhi, prese una sigaretta dal pacchetto sul comodino. La accese, si alzò in piedi, muovendo qualche lento passo verso la finestra. La aprì e lanciò la sigaretta, e la guardò volare, simile a una stella cadente, descrivere un ampio arco, tuffarsi nell’abisso e spegnersi sul campo.
Chiuse gli occhi, e rivide la stessa scena, con il sottile arco di luce disegnato per pochi millesimi di secondo, e poi cancellato in un istante.

Sentì improvvisamente la porta, e tutto fu, per pochi istanti, come in un sogno.
Vide la piccola abat-jour sul comodino diventare un piccolo sole, e le cose attorno ad esso farsi improvvisamente sferiche, e disegnare con le loro sagome orbite sfuggenti, ma misteriosamente impresse sulle pareti verdognole della stanza. Il pensiero lo fece sorridere.
Tornò alla realtà, e aprì la porta.
Di fronte, un uomo alto e robusto, con un importante smoking odoroso di bella vita, indicò qualcosa dietro di sé.
- Bello il pianerottolo, eh? – disse.
Fior annuì, accennando un timido sorriso.
L’uomo entrò, e Fior si accorse che in qualche modo gli aveva letto nella mente. Lui, scorta la parete squallida, voleva vedere solo quella, e disdegnò per non pochi secondi la presenza dell’ospite inaspettato e sconosciuto.
Scrollò la testa. La sua nuova condizione non gli si addiceva ancora. Aveva bisogno di tempo per poter abituarsi al fatto di essere completamente libero.
- Ti ci abituerai presto, sogghignò sereno l’uomo robusto, e si accomodò sulla poltrona.
- Dove siamo? - Il tono di Fior interruppe l’atmosfera gioviale che si era creata.
- Dove sei?! - rispose meravigliato l’altro - Io non lo so di certo.
Fior sorrise. Era tutto piacevolmente assurdo: l’uomo robusto, di cui non conosceva nulla, che gli leggeva nella mente e che gli rispondeva in modo ancor più assurdo.
- Basta, ti prego. Dimmi dove siamo.
Inaspettatamente, Fior cadde per terra, lungo disteso. Poi, riaprendo gli occhi, La vide.
In una visione di luce e profumi, Fior vide la Donna che amava, e tentò di sfiorarla, ma non riusciva a muoversi. Il suo sguardo sembrava alquanto inclemente, lui però sorrideva, quasi inebetito.
La visione scomparve.
- Siamo in un motel. Non so esattamente dove. Il proprietario – disse, malcelando un certo disgusto- è un mio amico.
- Dove siamo, più o meno?
- Non lo so, amico. Te l’ho già detto.

La notte era fredda davanti al motel, e il cielo era dipinto di tenui tinte rosse. Enormi banchi di nuvole si muovevano, nascondendo completamente la vista delle stelle. Fior vide quello spettacolo poco prima di salire sull’automobile, e ne fu estasiato e turbato al contempo.
L’altro sembrava distratto, eppure percepiva lo stato d’animo di Fior.
- Dimmi, cos’ha di tanto sconvolgente un temporale in arrivo?
- Un temporale?
In quell’istante, una grossa goccia gli cadde tra le ciglia, e la vista rimase come squagliata per alcuni istanti. Una grande macchia scura divenne un oceano di pipistrelli, e comparve all’improvviso una luna abbacinante che accecò Fior, che si accorse poco dopo che dolci profili si delineavano, danzando dolcemente dalla luce, come rigagnoli d’acqua. E La vide di nuovo.
Quando la visione scomparve, l’acqua picchiettava il tettuccio di un’automobile, e si infrangeva in innumerevoli lacrimucce stagnanti. Fior aprì la portiera e si infilò velocemente nel veicolo.
Dentro, Lui rideva. Quando notò Fior, smise a fatica, poi mise in moto, e viaggiarono a tutta velocità attraverso una notte madida di pioggia.

Attraversarono colline e alture, ridotte a sagome scure che si stagliavano dalle basse luci dell’orizzonte azzurrino. La strada era stretta, poco illuminata e terribilmente dissestata. Ogni tanto, una piccola casetta si affacciava al lungo nastro grigio della strada, mostrando con orgoglio un fiore all’occhiello luminoso, Faro d’Alessandria in un oceano d’acqua scrosciante e rumorosa.
- Dove andiamo? – chiese Fior, riemergendo dal torpore.
- C’è un posto che dovresti vedere prima del sorgere del sole, poi la scelta sarà tua.
- La scelta?
- Prima aspetta di arrivare, e poi avrai le tue risposte.
- Ma cosa ci faccio qui? Chi sei? – la voce di Fior divenne un grido lamentoso. – Dimmi, che cosa è successo a... tutto?
La pioggia divenne sabbia, e la strada bagnata una lunga linea di fango.
Attraverso il parabrezza, si vedevano solo ondate di fango che si riversavano sull’automobile con devastante irruenza. Ma Lui non se ne curava. E Fior era zitto da tempo.
Lui non gli aveva risposto. Fior aveva perso la pazienza, ma non la pazienza di aspettare la risposta, la pazienza di ascoltarla. E si era rassegnato a guardarsi i piedi.
- Senti, Fior...
- Eh? - la sua voce era distante e patetica, immersa in un sonno fatto di forme in movimento. Stavolta, Fior scacciò in anticipo la visione.
- Io so che stai male.
- Io sto benissimo!
- Guardati la pancia.
Fior vide che la sua pancia era squarciata da un grande buco.
- Cos’è!!?? - l’urlo si confuse con l’agonia, l’agonia con la morte, la morte con la lancinante illuminazione.
La lancinante illuminazione trafisse i sensi, tutti, anche quelli repressi, latenti, e si confuse con una sagoma, la stessa, la stessa di sempre, sempre più nitida fino ad apparire un gioco rigido e statico di contrasti, di bianco e nero, talmente rigido da far male agli occhi.

Quando riaprì gli occhi, dopo ore di sonno, e dopo altre ore di sforzo enorme per muovere quei piccoli muscoli, paralizzati dall’eccesso, vide che era tutto bianco.
Oltre la distesa di bianco, immacolato e irreale, c’era una sagoma più scura che si stagliava sullo sfondo.
Fior mosse il primo passo, e, se all’apparenza non sembrava esistesse nulla, avvertiva qualcosa di solido e concreto sotto i piedi, una sensazione stranissima, che scomparve e divenne parte stessa della confusione che lo conduceva verso la sagoma.
Quando si avvicinò alla sagoma dai lineamenti offuscati, questa lo riconobbe. E gli parlò.
Lui non capì nulla, non riusciva ad udire nessun suono, un prurito irritante alla base del collo, la sensazione di non sentire e non sentirsi. Tentò di muovere qualche muscolo facciale, ma non vi riuscì.
La sagoma smise di parlare, e finalmente potè riconoscerne il volto.
Era Lei.

Aprì di nuovo gli occhi, e rivide Lui accanto a sé. Erano fermi accanto a una strada abbandonata in pieno deserto. La Luna spuntò così improvvisamente che sembrò aver spiccato un salto. Poi gli sembrò di vedere una stanza da letto abbastanza spartana: un armadio, un letto coperto da un federa gialla e nera, disegni irregolari e inintelligibili su un fondale giallo neutro, e sopra il letto, immersa in un sonno profondo e caldo che l’abbracciava, c’era Lei.
Quando rialzò il volto, vide che la Luna diventava sempre più grande, si gonfiava quasi fosse in procinto di esplodere.
Poi scomparve del tutto.
Vide una piuma svolazzare alla sua estrema destra. Si girò verso quella, ma era già sparita. Poi, abbacinante, venne l’illuminazione: era polvere. Quello che gli era rimasto tra le mani, dopo il sacrificio, dopo aver fissato a lungo la luce meravigliosa e splendida del pinnacolo, per poi conoscerne la falsità. Polvere, e chilometri nelle ruote, e buchi nella pancia, e la verità tra le mani.
Invidiò per un istante l’illusione di quelli dall’altra parte, che non avevano visto, che non avevano sofferto, o che se lo avevano fatto non erano riusciti a riprendersi il dolore e mangiarselo, digerirlo e viverlo, prendendolo come punizione, ma come un dono. Un dono di immensa gratitudine, immensa e mortale. Non avevano respirato la polvere, non l’avevano mangiata, non ne avevano i polmoni pregni. Perché chiamare alla mente il Pensiero, e incontrare gli Occhi, e planare sulle Labbra, e cadere di nuovo negli Occhi, e scivolare sui Capelli, era tornare alla Polvere.
Dov’era la strada che poco prima si stendeva sotto i suoi piedi, e l’Uomo che l’aveva accompagnato lì, attraverso una cascata di fango, un sogno vero e tangibile?
La Calotta di Stelle sopra restava immobile. Come se il tempo si fosse fermato. Poi, Lui c’è. Poi, di nuovo scompare.
Tutto è di nuovo bianco.
Avanzò barcollando. guardò oltre una collina, comparsa all’improvviso, come modellata dal vento, dono di polvere: il sole appena sorto convinse anche le ultime brume a scomparire, e loro, dopo le numerose ore trascorse appese in aria, visibili come fantasmi, si persuasero che forse era tempo di coricarsi.
Oltre la Collina, tutto era luce. Era anche più bianco di quel Bianco. E lui si incamminò nella luce.
E quando, poco dopo, ne uscì, c’erano dei bambini.
Giocavano, saltellavano attorno alla loro orbita inesistente. Fior rimase con le braccia distese lungo i fianchi. Guardava.
Poi un uomo, dall’altra parte, lo salutò.
Era Se Stesso.
Accanto c’era Lei.
Lui sorrideva. Lei sorrideva.
Lui salutava. Lei salutava.
Lui la amava. Lei lo amava.

Quando la Collina scomparve, i bambini corsero verso di lui: l’ultimo bimbo, il più piccino, gli passò attraverso. Poi, pochi metri dopo, si fermò a fissarlo, in volto un’espressione stranita. Fronte corrucciata, occhi a fessura: adirato o incuriosito, forse entrambi.
Il sorriso illuminò finalmente il faccino paffutello del bambino che iniziò a salutare. Corse via ridendo, su un terreno che non esisteva, ma che andava in salita.



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