buzzoole code A Paul's Life: 2010

venerdì 26 novembre 2010

Fratellini

Non so perchè, ma mi sono completamente dimenticato di notificare la nascita di due fratellini di A Paul's Life!

1) Il grandissimo, unico e momentaneamente in ferie Double Feature, che ospita quello che questo blog ha cercato disperatamente di ospitare, senza successo: le recensioni. Di tutti i tipi, senza alcuno scopo. Godetene su http://dabolfitur.blogspot.com/

2) A Paul's Mini Life sta a A Paul's Life come Mini-Me sta a Dr. Evil. Lui sta qui, e fatene buon uso.

Ci si risente per Natale, fratelli.

mercoledì 20 ottobre 2010

Cogli l'attimo, responsabilmente

(gentilmente offerto dalla Società Italiana degli Auto-Motivational Speeches)
 
Illudiamoci che le cose siano semplici come possono sembrare. Che sia davvero tutta questione di "cogliere l'attimo". Che dietro a questo pulsare stupendo non ci sia altro che quello che vediamo.
E allora, dove va a finire il resto? Quello che non succede ma c'è, cosa significa? E quello che succede, si esaurisce tutto a se stesso? Tutto ha la stessa importanza?
No.
Io mi rifiuto di crederlo. 
Io mi rifiuto di credere che il momento in cui mi sono commosso per una puttanata sia importante quanto quello in cui mi sono lavato i denti stamattina. Non è possibile.
Io mi rifiuto di credere di dover passare l'esistenza a premere centomila acceleratori. Io voglio anche annoiarmi. Io voglio anche fermarmi e guardarmi indietro. Io voglio provare anche a sbirciare più in là.
Non riesco proprio a cogliere tutti gli attimi perchè sono tutti importanti, fatemi cogliere quelli che mi piacciono. Quelli che hanno un senso più grande, più largo, più lungo e più profondo. Quelli in cui posso respirare, e non pensare al fiato corto del minuto che sta arrivando e che vuole essere goduto anche lui. Me lo godo se se lo merita. Me lo godo se me lo merito.
E a scegliere gli attimi forse c'è bisogno di farsi un po' di domande, altrochè. Di fermarsi. Di lasciare qualche attimo non colto, perchè magari non ne val la pena. Farsi sorpassare. Non farsi soddisfare del tutto. C'è bisogno di bucare la superficie del momento che preferisci, interpretarlo, assaggiarlo un attimo prima di ingurgitarlo.
E, certo, sembra inutile, sembra una perdita di tempo, sembra difficile. O magari sembra facile e codardo.
Ma perchè deve essere sempre tutto utile? Perchè devo limitarmi a quello che capisco o che riesco a intuire sul momento? Perchè non posso complicarmi la vita?
Io la vita voglio complicarmela! Voglio complicarmela perchè è già complessa e se la semplifico troppo... forse mi sto prendendo in giro da solo. Come la sopporto una cosa tanto complessa? La smonto e la rimonto come voglio.
Ma tutto questo smontare e rimontare avrà un prezzo, prima o poi. Un po' si perde il contatto con l'autentico, un po' si fatica a possederlo. Cose che vengono difficili.
Ma io ho un obiettivo.

Io, se il mondo ha pazienza, posso provare a salvare capra e cavoli.
Riuscire a osservare il mondo, la vita e tutto il resto come complesso e continuare a fingere di non capirlo, mentre lo accetto come spontaneo e vivo e sanguino mentre parlo e voglio bene al prossimo e lo perdono anche se non sto cercando di driblarlo.
Questa è la nuova frontiera.
Siete tutti invitati.

sabato 18 settembre 2010

Nessuno ha più voglia di scrivere

Secondo un saggio che conosco, chi si accontenta copre. Copre in quel senso lì brutto, avete capito bene. Cioè, bello. Cioè, avete capito... nel senso erotico del termine. Pensare che erotico era un mezzo insulto, una volta. Te lo vedi uno un po' con le stimmate del buliccio per strada, e tutti i signori in pipa e fedora che gli gridano Uè, guardate quell'erotico! Vabbé che la fedora fa stilosismo, fa finezza psico-posturale, fa sospensione da campo lungo, carrellata laterale e bianco e nero...
Nessuno ha più voglia di scrivere, e mi sa neanch'io, ma gesù quant'è bello il suono dei tasti e la canotta della mezzanotte e mezza e la voglia di wurstel e senape sotto il palato, che gorgoglia anche lo stomachino qui, e quasiquasi... quant'è bello che scimmiottare i romantici alla fine abbia ancora senso, e ammiccare al Bukowski che maledetto è più sano, anche se qui si è senza cirrosi, senza catrame e senza boh da scrivere. Battere a caso, a un caso e mezzo, quel che suggerisce il cervelletto, filtrarlo appena e sciorinarlo, alla fine allungarlo con la mezza abitudine dell'ordine.
Ci sono più o meno cinque parole che vorrei avere in bocca in questo momento. In sequenza, s'intende. Ma non si possono ancora sguinzagliare, lasciare libere di far danno. Ancora. Per ora sono nascoste al posto dei denti del giudizio che almeno una volta l'anno si mettono a tirare e far male, ma toglierli è troppo inutile perché ne valga la spesa. Sembra che ringhino, ma vogliono accarezzare. Ma poi sembra che ringhino lo stesso e le si manda sempre a cuccia, coda fra le gambe. Non passa anno senza che ci riprovino, non passa anno senza una vasca da svuotare. Neanche il tempo del gorgoglio, e giù il tappo che si riempie ancora.
Chi si accontenta copre, e io non voglio accontentarmi di niente, piuttosto lo spurgo da soli alle sette del mattino come alle tre di notte, piuttosto la sfiga a valanghe e i denti stretti. Piuttosto i calci nel piumone. Piuttosto questa scrittura conto terzi.
Se fosse un mondo perfetto, oggi ci sarebbe la neve e niente strade da attraversare e i guanti grossi e ruvidi che ti gommano le mani, ma in questo mondo perfetto senti e prendi le cose come se le mani fossero solo un po' più grosse e di un colore diverso. Oggi durerebbe un giorno in più, e ci sarebbe qualcuno che mi butta per terra e mi rotola e mi stuzzica alla vendettina, qualcuno che ride e arriccia il naso e si raffredda e dice qualcosa di imprevedibile ed enorme. Qualcuno fatto di colori, e che prende a piacimento la neve e la trasforma nell'alba più bella del mondo sull'erba più vibrante di quelle possibili e non. Qualcuno che ti subaffitta l'anima senza chiedere il permesso e senza firmare il contratto. Qualcuno a cui fare del bene. Qualcuno che lì non c'è, e corre a nascondersi nel sogno dopo.
Io credo che questa pagina non potrà mai finire, io credo che continuerà a nascondersi anche lei, io credo che questo non debba esistere ma se c'è è bello lo stesso. Io credo che se non ho passato logica la ragione è anche questa pagina. Io credo che questa pagina non sia una pagina. Io credo che quello che credo non gliene frega niente a nessuno, e che sembra un po' un discorso masturbatorio tipo Radiofreccia. Io credo che a volte mi giustifico troppo.
Nessuno ha più voglia di scrivere, e chi ce l'ha nasconde un motivo brutto. O non lo nasconde, ma ce l'ha. Io ho sempre cinque parole in bocca e un oceano di parole nella testa, ma qui ne metto solo un po'. Io spero che non vi piacciano, io spero che le capiate ma non abbastanza, io spero che la troviate voi al posto mio l'utilità, se vi serve. Se non vi serve meglio, felice di aver condiviso qualche minuto di incertezza.

Coreografia corale à la Bollywood.

martedì 20 luglio 2010

Una questione di fede

ovvero Mettersi Lost alle spalle

“It only ends once. Anything happens before that it's just progress” (Finisce solo una volta. Qualsiasi cosa succeda prima di allora, è solo progresso).
Lo diceva Jacob, all'inizio della catena di eventi che avrebbe portato un aereo di linea "qualunque" a schiantarsi su un'Isola deserta, e i suoi passeggeri ad affrontare... il miglior periodo delle loro vite. Paradossale, eh?
Non c'è bisogno di dirlo: in questo post noioso, arrogante e prolisso si parla di Lost, di cos'è stato, dell'esperienza intensa di uno dei suoi spettatori più affezionati – e proprio per questo, feroci. Quindi pussa via che poi vi spoilerate.
Dicevamo... eccoci, siamo alla fine del viaggio, forse non completamente soddisfatti – specie del viaggio di ritorno –, ma sani e salvi. E un po' più turbati di quanto credessimo, se tutto è andato come previsto.
Ma cos'è stato Lost, cos'è stato questo pezzo di vita interplanetario?
Oso dire che è stata la conferma definitiva della Magia delle Storie, del loro potere immenso. E, personalmente, la celebrazione del motivo per cui le amo così tanto.
E anche del perchè c'è gente (come il sottoscritto) che vuole guadagnarsi da vivere raccontando al mondo che, in fin dei conti, i suini possono decollare.

La ruota per asini congelata
Partiamo dai danni strutturali.
La solidità di un edificio si vede alla fine della costruzione. Lost è partito con un progetto promettente, dai preventivi il miglior edificio di sempre, ma ogni piano sembra essersi allargato in modo sproporzionato rispetto al precedente. Il risultato è una piramide al contrario conficcata nel terreno. E le piramidi al contrario, si sa - per quanto ben conficcate - cadono.
Alla fine del viaggio, insomma, è evidente come il percorso si sia "perso" rispetto alle premesse: quella che è fondamentalmente una grande storia di maturazione ed elevazione collettiva è stata deviata dalla tensione generata – esattamente come il metano – dallo stratificarsi di intrecci, coincidenze e ammiccamenti a una pesante mitologia (e con mitologia intendo tutti gli elementi che originano e giustificano la storia che ci viene raccontata).
E quali erano le premesse? Prendere un'idea piuttosto banale come quella del naufragio sull'Isola deserta, e aggiornarla alla versione 2.0. Una situazione da Signore delle Mosche diventa una storia di persone in pieno travaglio esistenziale, traghettate attraverso numerose imprese e patimenti a un piano superiore delle loro esistenze. Una tragedia moderna, senza troppi fatalismi e sacrifici, insomma. Il tutto, raccontato portando alle estreme conseguenze lo svilupparsi progressivo di trame e sottotrame. Di questo parleremo meglio più tardi, torniamo ai problemi.
In breve, abbiamo visto una prima stagione eccellente sotto ogni punto di vista, accessibile da vaste fette di pubblico e dalla freschezza del formato, seguita da una seconda stagione eccezionale, coraggiosa e saporita, per portata tematica e scopi raggiunti, probabilmente il condensato dell'intera serie.
Alla terza stagione, l'edificio ha cominciato a mostrare le crepe: la struttura, che necessitava una programmazione chirurgica, si è vista mancare ossigeno per colpa di una limitata lungimiranza, della rete e degli autori. È diventato evidente come il Piano troppo vago e la mancanza di coraggio della rete (David Fury, tra i produttori della sola prima stagione, testimonia come alcuni pesanti accenni all'elemento viaggio nel tempo siano stati sabotati dal network ABC, che temeva che la componente fantascientifica potesse danneggiare gli ascolti all'epoca astronomici) rischiassero di snaturare così tanto la serie da costringere tutti a correre ai ripari, fissando una data di scadenza per l'operazione.
Però il danno era già stato fatto: per usare una terminologia tecnica, era crollata la "sospensione dell'incredulità". In poche parole, lo spettatore medio non riusciva più a essere convinto della "credibilità" di ciò che vedeva, perchè la storia stava letteralmente strabordando rispetto alle sue premesse. Mi sono vantato a lungo di essere un "credente", perchè tutto sommato la faccenda Desmond non mi era mai sembrata così smaccatamente lontana dalle premesse - dopo tutto, c'erano mostri misteriosi che si mangiavano gente fin dalla prima puntata -, ma è una lamentela tutto sommato comprensibile, vista la violenta sterzata con cui il viaggio nel tempo è stato introdotto. Scusate la deviazione..
Da allora, Lost è diventato più organico, certo, ma ha cominciato a impazzire, a perdere l'orientamento. Un esempio su tutti: solo dopo quasi due anni ci si è accorti che la quinta stagione, fondamentalmente, è stata una stagione di allungamento di brodo, che alcune sottotrame erano dei totali vicoli ciechi, nonostante si presentassero come assolutamente indispensabile. E ancora peggio, tutto questo è sfociato nella barata più totale del nesso Incidente-Aldilà (non commenterò oltre la questione, ma tutta la sesta stagione è, da questo punto di vista, una sontuosa presa per il culo).
Il ciclo perverso di Lost è stato alimentato dall'autocompiacimento dei suoi due demiurghi, Damon Lindelof e Carlton Cuse, troppo esaltati dal loro motore narrativo potenzialmente inesauribile. Si è preferito giocare d'accumulo, aggiungere segni ambigui di una mitologia diventata troppo concreta e onnipresente da poter essere credibile (perchè tirare in ballo gli Egizi o i Romani?! È il massimo di arcaico e ancestrale che vi viene in mente per giustificare tutto sto popò di casini?), oltre che, banalmente, risolvibile in termini pratici: certo, tutti si aspettavano di non avere tutte le risposte, ma quantomeno indirizzare le questioni decisive... Beh, molte rimangono sensate anche senza particolari risposte – d'altronde, cercare ogni risposta equivale a rinunciare all'“aura” e magia di molte storie (Alice in Wonderland docet).
Ecco quindi il perchè di un finale perfetto dal punto di vista tematico, ma giunto al culmine con fatica, dopo tre stagioni di progressiva stanchezza, culminate nella pigrizia totale della Stagione Finale.

La Scatola Magica
Parliamo ancora un po' della meccanica che ha reso Lost un prodotto di successo. Come diceva McLuhan, il mezzo è il messaggio, è per Lost è vero fino alle estreme conseguenze.
Cos'è cambiato con Lost? Fondamentalmente niente che non stesse già per accadere, solo che si sono accorciati i tempi.
Se ricordate i telefilm della vostra infanzia (quelli vecchi, come Supercar, Hazzard, La signora in giallo, ecc.), raccontavano fondamentalmente storie autoconcluse (ovvero autonome e risolte nell'ora scarsa del loro svolgimento), con un drappello di personaggi più o meno fissi e bidimensionali, regia e sceneggiature perfettamente lineari e modulari. E per forza di cose, molto ripetitive.
A metà degli anni 80, le cose cominciano a cambiare: le serie televisive americane tentano di diventare più accattivanti, con personaggi più complessi, che spesso attraversano, nell'arco di intere stagioni, cambiamenti anche importanti. È l'inizio della cosìddetta soapizzazione dei serial, con l'introduzione di trame, sottotrame e personaggi a lungo termine, senza però allontanarsi troppo dalla formula autoconclusiva. Un esempio recente: le prime stagioni di House seguivano questa logica.
Sul finire degli anni 90, serial come The Sopranos hanno accantonato l'autoconclusività degli episodi, che diventavano tasselli fondamentali di un disegno più grande. Esattamente come le soap operas.
A metà dei 2000, il passo ulteriore, l'abbandono della linearità. Lost non ha inventato niente, certo, ma ha portato in televisione e a un largo pubblico delle modalità di narrazione da film d'autore (certo, sto esagerando): le già citate linee narrative di lungo respiro vengono tritate e frullate in una narrazione costantemente a due tempi (che sia il presente, il futuro o il “possibile”), investendo molto sulla recettività e sulla fede(ltà) dell'audience (e capitalizzando con intelligenza anche sulla possibilità di ingannarlo, come dimostra il finale della terza stagione), raramente lineare e didascalica, con ellissi a vari livelli. Sembra poco oggi, ma fino a sette, otto anni fa era completamente impensabile per un canale televisivo che è il corrispettivo americano di RaiUno.
Certo, il quid di Lost (del primo Lost, quello delle prime due stagioni), a parte la questione narrativa, sta in una miriade di fattori: nella brillantezza dei personaggi, nel loro essere simbolici e al contempo credibili; nell'altissimo livello medio di scrittura, sorretto a meraviglia da dialoghi vibranti, intreccio puntuale e fresco, quasi la macchina da storie perfetta; nella regia, essenziale ma non ruspante, che sa quando concedersi qualche effetto un po' sborone; nella recitazione vibrante; nelle musiche, le più ispirate e originali da tempo, un'amalgama di armonia e ossessione.
Ma soprattutto lei, la Scatola Magica. Il fascino inesauribile e incontenibile dell'ignoto, un gioco (o una presa in giro) senza fine con ciò che rende l'essere umano una creatura fantastica: la curiosità. Come si diceva, il mezzo è il messaggio: il messaggio di Lost è fondamentalmente di foraggiare la propria spiritualità, di "avere fede" nella propria curiosità, di essere strumenti della propria ricerca personale. E non si chiede nulla di meno nemmeno agli spettatori.
Strano, forse la questione capitale in Lost tra scienza e fede si risolve tutta lì, nella curiosità.

La (nostra) patetica, piccola vita
Nessuna storia è davvero realistica, è impossibile ricreare la realtà quando si racconta una Storia. È per questo che esistono i quotidiani, o i reportage, o i documentari: per raccontare o analizzare certi aspetti della realtà secondo certi punti di vista. Le Storie interpretano la realtà, prendono in prestito alcuni suoi elementi e li rielaborano in una forme più digeribili e/o entusiasmanti, ed è proprio questa forma più semplice e meno problematica a rendere possibile letture diverse a livelli diversi, applicabili anche al quotidiano.
Storie totalmente autoreferenziali o fini a se stesse, appiattite su ciò che rappresentano insomma, o lo sono deliberatamente (e non c'è niente di male) o sono “mal consigliate”. E proprio per questo, le storie, se prese con il giusto peso, hanno un potere che non è solo quello di farci fantasticare o viaggiare o divertire, ma è quello di aiutarci in modo insperabilmente concreto – quasi subliminale - nelle nostre vite. Non si sta parlando di “morale”, attenzione, ma di problemi e questioni che possono presentarcisi davanti a ogni angolo.
Nell'anima di Lost, come già accennato, c'è la volontà di raccontare la storia di persone credibili, certo, ma non reali. Hanno problemi e dilemmi terribilmente vicini ai nostri: come noi sono Perse non solo nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo che ha saggiamente scelto di non essere più regolato da termini etici o sociali assoluti, ma che, forse per pigrizia, non è ancora alla ricerca di valori sostitutivi all'altezza.
Ovvio, non è roba risolvibile per televisione (che ha anche altre esigenze), ma, come si suol dire, sollevare la domanda è più importante dell'avere la risposta. E non è un caso che i riferimenti al mondo della religione, della filosofia e della letteratura siano molteplici.
Ad ogni modo, Lost ha provato a consigliare il senso del Valore in un mondo ormai post-religioso, che pertanto necessita costantemente di ricordare le sue priorità, i suoi punti di orientamento. È per questo che i personaggi hanno origini diverse, percorrono strade così tortuose prima di arrivare al punto dell'illuminazione, di una comprensione superiore, che non è la ricerca tanto di un nirvana o cos'altro... ma in un abbraccio collettivo.
Ma in un mondo post-religioso va sempre e comunque fatto salvo il fatto che nessuno ha mai realmente ragione, ma tutto ha un senso. Neanche io in questo post gargantuelico, per dire. Tutti devono passare attraverso sbagli, illusioni, dolore, peccati, sacrifici, sangue per “guadagnarsi il Paradiso” - comunque lo intendiate.
Cito uno dei manuali di mitologia comparata più famosi e sfruttati da scrittori e narratori in genere, L'eroe dai mille volti di Joseph Campbell: "L'individuo [...] si libera da ogni attaccamento alle proprie limitazioni personali, alle proprie idiosincrasie, speranze e paure, non si oppone più al proprio annullamento, indispensabile per rinascere nella conoscenza della verità, ed è finalmente pronto per la grande conciliazione. Annientate le proprie ambizioni personali, egli non cerca pià la vita, ma spontaneamente si abbandona che può accadergli". È questo il significato di tutte le pratiche religiose, è questo il significato di moltissime Storie.
Che Lost ci sia riuscito a porre la "questione spirituale" in ognuno di noi, penso dipenda da quanto sia riuscito a penetrare nella scorza di ognuno di noi, daquanto sia riuscito a bucare il nostro scetticismo.
Personalmente, molto. Io ho vissuto questi sei anni al fianco di John Locke, nel bene o nel male, c'era qualcosa nelle nostre "sofferenze" di dolorosamente simile, e forse universale. C'era qualcosa nel suo andare avanti nonostante non sapesse la strada, nella sua gratitudine immensa per la nuova possibilità ricevuta, nelle sue crisi di fede... era lì, era vivo, c'ero anch'io in lui.
Va beh, non divaghiamo.













domenica 28 marzo 2010

Malamaronò - Commenti raffreddati sul Festival di Sanremo 2010

È finito. Anche quest'anno tutto il Carrozzone Sanremese è andato a sfrangersi scomposto contro le mie pupille incredule, scavando insperati e deliziosi vertici di trashissimo squallore e di conseguente e autentico divertimento. Ammàzzate che apertura.
Tanto per dimostrarvi che questo blog esiste ancora, eccovi una bella mega-recensione scritta in un mese circa su quello che possiamo oggettivamente definire "il Festival a immagine e somiglianza della sua conduttrice" - con tutto ciò che ne consegue. Nel male.
Neanche da dire, questo intervento lungo e non-richiesto è autorizzato, citando la coppia ormai stabile (alla faccia del rispetto delle tradizioni canoniche di un bigamo, si potrebbe malignamente commentare) Enzo Ghinazzi - Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia, dal fatto che credo nella mia cultura e nella mia religione, per questo io non ho paura di esprimere la mia opinione. Trovate l'intruso.
Passiamo quindi all'argomento regino della kermesse, le canzoni (anche perchè essendo festival della Canzone Italiana, ed essendo io collaboratore di una rivista di musica italiana, non si scappava. Per non far torto a nessuno, andrò in ordine alfabetico per interprete.

Arisa - Malamorenò
L'anno scorso l'abbiamo sperticatamente lodata come nuovo standard della canzone all'italiana. Segretamente, speravamo che sarebbe, col tempo, arrivato un passo in meglio, verso un'autenticità (il vero quid del personaggio Arisa) che non passasse necessariamente attraverso dei pezzi esageratamente ruffiani, orecchiabili fino all'usura e buonistissimi. Niente da fare, si è cavalcata l'onda e Malamorenò fa ammosciare le gonadi. Da antologia lo scenario post-apocalittico in cui <<Può scoppiare in un attimo il sole / Tutto quanto potrebbe finire>> , non fosse che <<A volte basta che ci sei / Perché a me basta che sei qui vicino / Perchè a me basta che ci sei>>. Come direbbe il regista Enzo Castellari: mej cojoni!
Preziose comunque gli interventi delle Sorelle Marinetti, e la versione "aristocats" della serata degli ospiti con Lino Patruno Jazz Band.

Malika Ayane - Ricomincio da qui
Tre minuti e mezzo belli densi per un pezzo scritto a quattro mani dalla splendida Malika e dal prestante Gino "Pacifico" De Crescenzo al testo, servito su una confezioncina musicale sofisticata e vagamente bacharachiana di Ferdinando Arnò. Un brano impalpabile e sorridente, che decoprime quel magnifico istante di incertezza e stupore del realizzare che mannaggia è proprio vero, mi sono innamorato per davvero. Per chi scrive - e non solo - il pezzo qualitativamente migliore del Festival, penalizzato forse dalla mancanza dell'immediatezza e dell'orecchiabilità della hit dell'anno scorso Come foglie - "difetto", se di difetto si tratta, che non ne sta affatto danneggiato le vendite.
Non mi ci soffermo troppo, avrebbe meritato di vincere, perla nello sterco, bla, bla, bla e bla, bla, bla.

Simone Cristicchi - Menomale
Sentendo e leggendo in giro dei commenti su questa canzone, ancora mi stupisco di come a tanta, tanta, tanta gente sia davvero estraneo il concetto di ironia (e non umorismo o semplice comicità, attenzione: intendo, banalizzando, un discorso il cui significato letterale è l'opposto rispetto a quanto realmente si vuole dire), cosa che purtroppo ha penalizzato la percezione di questo pezzo, salutato come banale tormentone da un pubblico impellicciato dall'orecchio evidentemente un po' superficiale, e, ancora, dalla preparazione culturale piuttosto terra-terra.
Oltre a queste notazioni, il brano non è un capolavoro: è l'ennesima incarnazione delle demo-caustiche critiche sociali cristicchiane, ma con un maggior mordente, grazie alla penna acuta di Frankie Hi Nrg al testo e all'innesto crossover di chitarre e fanfara gloriosa nel ritornello.
Vale quindi anche l'opposto del commento iniziale: da alcuni è stato salutato come grande pezzo di critica, quando non ne ha proprio la stoffa, nonostante le liriche abbastanza indovinate (l'accostamento Wojtjla - Bin Laden non l'ha colto praticamente nessuno). Per quanto simpaticamente graffianti, in questo tipo di pezzi semplicemente manca il respiro argomentativo per costruire bene un discorso, che per come è svolto risulta un pochetto qualunquista.

Toto Cutugno - Aeroplani
Lei è una stronza e lo fa soffrire, lui per ricucire adotta la formula scordammoc'o'passate.
Nel processo, Toto riesce a fare esplodere un muscolo cardiaco. Grossa stima. Carissimo, va bene l'amore, ma lo capisci che la scopa nel culo è dietro l'angolo?
Il pezzo è stato palesemente riciclato da un Sanremo del primo millennio a.C., il testo è tirato via e la musica è fin troppo ambiziosa. L'abbiamo visto: Toto, reduce dalla sua malattia, sembra posseduto dal fantasma di Joe Cocker, solo stonato. Cher avrebbe rimediato con un po' di vocoder, ma Cutugnone non si sa limitare e scrive esplicitamente una canzone che non è in grado di cantare. Solidarietà per l'accaduto, ma un po' di dignità...

Nino D'Angelo e Maria Nazionale - Jammo ja
La riscossa del Sud è affidata al Yousson Dour del Golf'e'Nappule, in quella che è chiaramente la risposta a Italia amore mio, per mancanza di autoreferenzialità e vanità. Emerge sanguigno l'impulso a tirarsi su le maniche - sempre dopo il caffè, la pennica, eccetera eccetera. La canzone non brilla per originalità, ma almeno è onesta e non gioca sugli stereotipi e clichè che di solito uccidono nella culla questo tipo di brani (Gigi Finizio, non sei dimenticato, tu e il tuo orgoglio terrone).

Irene Fornaciari feat. Nomadi - Il mondo piange
Lei è la reincarnazione del padre, vocalmente, ma soprattutto fisicamente. Guardatela in faccia, le manca la barba.
Il brano si fa ascoltare: è praticamente un brano dei Nomadi (anche se paradossalmente potevano starsene a casuccia), compreso messaggio di abbraccio universale (che poi, perchè il mondo piange?), con dei punti presi direttamente dal Fornaciari sbagliato. Sì, il padre. Un applauso per la parrucca di Danilo Sacco, che riesce a vibrare anche attraverso il misero verso che gli è stato ritagliato.
Attendiamo il nuovo CD-ROM dei Nomadi, dopo il successo di "Dove si va?".

Irene Grandi - La cometa di Halley
Lei spacca sempre, anche se non si devasta di alcool più come un tempo. Peccato.
Ci riprova la premiata ditta Baustelle-Grandi dopo il successo di Bruci la città, con questo pezzo che di Baustelle ne ha fin troppo. E uno dice: "va beh, che ti lamenti? Mica sono i Finley." E infatti mica mi sto lamentando.
Il testo ha tutto il sapore da ascetico di Piazza Vittoria un po' fissato con la figa di Bianconi (il cantante dei Baustelle), su una relazione amorosa andata a spegnersi nella stanchezza e nelle elucubrazioni di lui. Solo quando lei si rompe il cazzo, lui si sveglia. Ma è troppo tardi. Segue simpatica citazione invertita dei Beatles: "you say goodbye, and i say hello" diventa "io ti dico addio, tu mi dici ciao". E soprattutto non c'è il tutto sesso orale di Bruci la città! Mannaggia a Bianconi!
Fa storcere il naso l'arrangiamento un po' piattuzzo, per un pezzo che diventa prezioso solo perchè spunta dalla media mediocrissima di quest'anno.

Marco Mengoni - Credimi ancora
Parte come l'inferno, sembra che deve spaccare l'Universo. Poi se ne dimentica. E lo immagino, cantare così bene stanca.
Un peccatone, l'xX-Factor (leggasi ex-X-Factor) ha la stoffa per pezzi molto più validi di questo, mediocre testualmente e precocemente appesantito negli arrangiamenti malgrado le piacevoli scaramucce orchestrali sul bridge.

Fabrizio Moro - Non è una canzone
Moro porta la ganja a Sanremo, giusto perchè tra tanti fiori mancava solo quella pianticella lì. Fatti come delle balle di fieno, ecco tutti a ballare tentando una riflessione sull'etica e morale. Purtroppo, anche qui vale un po' il discorso fatto a proposito di Cristicchi, con l'aggravante che metà del testo sembra fatta di parole qualunque piazzate lì ad minchiam, un po' come l'arrangiamento dei fiati sul secondo refrain.

Noemi - Per tutta la vita
Noemi potrebbe cantare all'Osteria di Gigi lo Stronzo e si bagnerebbe anche il forno a legna. Cioè, dai, sentitela, ti graffia le pareti dell'anima.
Vale il discorso di Mengoni, pezzo un po' improvvisato (anche se in suggestivo crescendo), che però lei potenzia a dovere. Questa ragazza ha davvero bisogno di autori seri dietro. Niente doppi sensi, please.
Terza canzone in cui esplode qualcosa, un record positivo per questo Sanremo.

Povia - La verità
La verità è che l'ho ascoltata 13 volte e non ho ancora capito qual è la tesi. Povia è famoso per i suoi pezzi ciellini, poi capziosamente omofobi. Stavolta, quando finalmente deve tirare la bomba da cento... niente, si ritira, dice un po' questo, un po' quello, così ognuno la legge come gli pare, basta "l'argomento" a fare pubblicità. E le violoncelliste fighe.
Il mio sospetto è questo: secondo Povia, il pericolo principale dell'interruzione dell'accanimento terapeutico è che lo spirito del deceduto possa rimanifestarsi sottoforma di brividi sotto la pelle.
Per il resto, il solito Povia sobrio che argomenta con razionalità su tematiche scottanti.

Pupo, Emanuele Filiberto, Luca Canonici - Italia amore mio
Al pari del pezzo di Scanu, è una fucilata di una gavettonata di un polpettone di un minestrone. Solo che se Scanu mira alle balle, il Ghinazzi-Savoia mira direttamente al cuore.
La prima strofa è il manifesto (o meglio, l'abborracciata somma) di tutto ciò che vorrebbe essere il minimo comune denominatore del popolo italico (già ben sintetizzato dalla proverbiale "popolo di Santi, Navigatori e Poeti"): le "tradizioni", la "famiglia", la "giustizia", compresa quella sociale., la "religione" (che non si spiega perchè credere in tutte queste cose legittimi qualsiasi cosa a dire una sua propria opinione, quando per farlo bisogna conoscerle, le cose. E vi garantisco che le due cose non sempre vengono di pari passo). E fin qui "ok".
Poi cominciano le bestemmie storiche. Cito: "io sento battere più forte / il cuore di un'Italia sola / che oggi più serenamente / si rispecchia dentro la sua storia". Considerati i duelli che a ogni celebrazione storica si fanno su revisionismo e simili, questa affermazione è completamente fuori dalla realtà. L'understatement è che il processo di revisionismo sta andando alla perfezione, fregandosene del fatto che si sta appiattendo tutta la Seconda Guerra Mondiale a un grigiore morale assoluto, senza porre alcun paletto. Se la storia la scrivono i Vincitori, la Memoria la ri-scrivono i figli dei Vinti.

Per farla breve e senza lanciarmi in crociate che qui non hanno senso, riassumiamo: "più serenamente" un paio di balle, Fili.
Sorvoliamo su Lele che stringe l'Italia tra le sue braccia (quando ben si conosce il sonoro schifo che i Savoia hanno dedicato al nostro Paese per decenni), la seconda strofa è un capolavoro di comicità involontaria, sullo sfondo di una deliziosa fellatio alla figura di PhilpBert, che diventa lo scintillante eroe umile ed ingiustamente punito (beh, non che lui abbia colpe, sinceramente. A parte la candidatura all'Udc). Puro melodramma, come ci piace a noi.
Tutto questo su un misturone musicale che si lancia in demenzialità operistiche (ricalcate su Somewhere over the Rainbow), con ridicoli contrappunti di mandolino synth che tanto fanno Nappule. Perchè, se ci pensate, mancava proprio "Mandolino, Mamma e Pizza".
Poi "Italia amore mio".... Cos'è? Una fiction con Ezio Greggio e una tettona del Bagaglino? Una trasmissione di Rai2 monopolizzata dalle proloco e dalle Confraternite del Risone in Brodo? Mavava....

Madre mia, ho scritto un casinò.

Enrico Ruggieri - La notte delle fate
La professionalità sta anche nell'umiltà. Ruggieri ha scritto belle canzoni, testi importanti e memorabili, ma sa bene che certi pezzi nascono da epifanie imperscrutabili, e non se la tira. L'artigiano fa bene il suo lavoro: La notte delle fate ne è un tipico esempio. Un testo giustamente poco ambizioso, ma sensibile e sorridente, arrangiamento un po' da svecchiare ma ben tarato sul nostro Enrico, che ci regala le sue vocali fantastiche appena può.
Non vediamo l'ora di sentirla nel prossimo spot del Lines Seta Ultra!

Valerio Scanu - Per tutte le volte che...
Sinceramente, regazzine a parte, in un Paese culturalmente e politicamente decomposto come il nostro, è normale che stravinca un pezzo del genere, e quindi non starò qui a menarla più di tanto.
Semplicemente, il pezzo, nonostante il prezioso mestiere che il Maestro Vessicchio apporta alle orchestrazioni, pare scritto in un anno imprecisato dello scorso secolo. È di un conservatorismo musicale che quasi spaventa, e fa ancora più paura se si considera che a scriverlo è stato un ventenne (dal volto deforme - ma questa è solo una cattiveria gratuita) e a interpretarlo un altro ventenne (con tanto di piercing alla lingua, che fa tanto "sono molto bravo nel sesso orale" - ma questo è solo un'attestato di stima).
Il testo è un capolavoro di svenevolezza romantica all'ennesima potenza, in un polpettone di immagini incontrollate ispirate a quell'amore pornograficamente romantico che "legittimamente" incanta le tredicenni di ogni epoca. E ogni modo, ogni luogo e ogni lago. Davvero, eventuali abbindolati/e dalla profondità sentimentale di questo brano commentino e mi svelino come facciano a prendere sul serio una simile apologia del sesso subacqueo.
Che spero sarà presto reso illegale.

Sonohra - Baby
Se Robert Plant, probabilmente l'uomo che ha urlato "beiibee" più volte nella storia della musica, fosse morto e gli capitasse di sentire questo pezzo, il risultato sarebbe 2012. I Sonohra ci hanno abituato alle loro carinerie adolescenziali rockeggianti, per cui c'è poco da dire, e ancor meno da meravigliarsi. Infatti, il biondino (il terzo fratello Kaulitz, quello deforme, ma l'unico che è riuscito a trasformarsi in SuperSayan - non è il cavo della chitarra, è la coda) ogni volta che si fa vivo si nasconde sempre di più. Attendiamo la scissione tipo Oasis.
E andatevene affanculo voi e la vostra h di merda che ogni volta ci metto un'ora a capire come vi si scrive.

Allora, siete d'accordo?
No?
Ve ne frega una mazza?
Qui sotto c'è lo spazio dei commenti. Ora vado a ritirare la mazzetta della Caselli.

giovedì 7 gennaio 2010

La polvere

Questo racconto ha circa otto anni, le ultime revisioncine risalgono a un paio d'anni fa, ma essenzialmente poco è cambiato: ha tutti i pregi e i difetti della scrittura di un sedicenne.
Lo pubblico, non so perchè ho voluto aspettare così tanto, non so nemmeno perchè lo faccio proprio oggi.

La polvere

Ci sono notti in cui le stelle non sono in cielo, ma te le trovi sparpagliate all'orizzonte. È in notti come questa, in cui le nubi del pomeriggio appena passato non sono che sfumature di blu siderale dietro cui si nasconde qualche timido astro, che gli esseri umani subiscono la tentazione di provare a respirare, a ricordare, a pensare.
Ed è lecito. È lecito anche per i reietti, gli emarginati, che probabilmente di questi cieli si nutrono più avidamente, che di questi cieli sanno calcolare spazi e profondità, che di ogni stella sanno vedere i pianeti.
Ed è importante. È importante per loro che amano la pioggia, i cieli cupi, e le notti senza stelle.

Se aveva qualcosa di veramente suo, era il nome.
Fior.
Si svegliò di soprassalto, e, non dandosi neanche il tempo di aprire gli occhi, prese una sigaretta dal pacchetto sul comodino. La accese, si alzò in piedi, muovendo qualche lento passo verso la finestra. La aprì e lanciò la sigaretta, e la guardò volare, simile a una stella cadente, descrivere un ampio arco, tuffarsi nell’abisso e spegnersi sul campo.
Chiuse gli occhi, e rivide la stessa scena, con il sottile arco di luce disegnato per pochi millesimi di secondo, e poi cancellato in un istante.

Sentì improvvisamente la porta, e tutto fu, per pochi istanti, come in un sogno.
Vide la piccola abat-jour sul comodino diventare un piccolo sole, e le cose attorno ad esso farsi improvvisamente sferiche, e disegnare con le loro sagome orbite sfuggenti, ma misteriosamente impresse sulle pareti verdognole della stanza. Il pensiero lo fece sorridere.
Tornò alla realtà, e aprì la porta.
Di fronte, un uomo alto e robusto, con un importante smoking odoroso di bella vita, indicò qualcosa dietro di sé.
- Bello il pianerottolo, eh? – disse.
Fior annuì, accennando un timido sorriso.
L’uomo entrò, e Fior si accorse che in qualche modo gli aveva letto nella mente. Lui, scorta la parete squallida, voleva vedere solo quella, e disdegnò per non pochi secondi la presenza dell’ospite inaspettato e sconosciuto.
Scrollò la testa. La sua nuova condizione non gli si addiceva ancora. Aveva bisogno di tempo per poter abituarsi al fatto di essere completamente libero.
- Ti ci abituerai presto, sogghignò sereno l’uomo robusto, e si accomodò sulla poltrona.
- Dove siamo? - Il tono di Fior interruppe l’atmosfera gioviale che si era creata.
- Dove sei?! - rispose meravigliato l’altro - Io non lo so di certo.
Fior sorrise. Era tutto piacevolmente assurdo: l’uomo robusto, di cui non conosceva nulla, che gli leggeva nella mente e che gli rispondeva in modo ancor più assurdo.
- Basta, ti prego. Dimmi dove siamo.
Inaspettatamente, Fior cadde per terra, lungo disteso. Poi, riaprendo gli occhi, La vide.
In una visione di luce e profumi, Fior vide la Donna che amava, e tentò di sfiorarla, ma non riusciva a muoversi. Il suo sguardo sembrava alquanto inclemente, lui però sorrideva, quasi inebetito.
La visione scomparve.
- Siamo in un motel. Non so esattamente dove. Il proprietario – disse, malcelando un certo disgusto- è un mio amico.
- Dove siamo, più o meno?
- Non lo so, amico. Te l’ho già detto.

La notte era fredda davanti al motel, e il cielo era dipinto di tenui tinte rosse. Enormi banchi di nuvole si muovevano, nascondendo completamente la vista delle stelle. Fior vide quello spettacolo poco prima di salire sull’automobile, e ne fu estasiato e turbato al contempo.
L’altro sembrava distratto, eppure percepiva lo stato d’animo di Fior.
- Dimmi, cos’ha di tanto sconvolgente un temporale in arrivo?
- Un temporale?
In quell’istante, una grossa goccia gli cadde tra le ciglia, e la vista rimase come squagliata per alcuni istanti. Una grande macchia scura divenne un oceano di pipistrelli, e comparve all’improvviso una luna abbacinante che accecò Fior, che si accorse poco dopo che dolci profili si delineavano, danzando dolcemente dalla luce, come rigagnoli d’acqua. E La vide di nuovo.
Quando la visione scomparve, l’acqua picchiettava il tettuccio di un’automobile, e si infrangeva in innumerevoli lacrimucce stagnanti. Fior aprì la portiera e si infilò velocemente nel veicolo.
Dentro, Lui rideva. Quando notò Fior, smise a fatica, poi mise in moto, e viaggiarono a tutta velocità attraverso una notte madida di pioggia.

Attraversarono colline e alture, ridotte a sagome scure che si stagliavano dalle basse luci dell’orizzonte azzurrino. La strada era stretta, poco illuminata e terribilmente dissestata. Ogni tanto, una piccola casetta si affacciava al lungo nastro grigio della strada, mostrando con orgoglio un fiore all’occhiello luminoso, Faro d’Alessandria in un oceano d’acqua scrosciante e rumorosa.
- Dove andiamo? – chiese Fior, riemergendo dal torpore.
- C’è un posto che dovresti vedere prima del sorgere del sole, poi la scelta sarà tua.
- La scelta?
- Prima aspetta di arrivare, e poi avrai le tue risposte.
- Ma cosa ci faccio qui? Chi sei? – la voce di Fior divenne un grido lamentoso. – Dimmi, che cosa è successo a... tutto?
La pioggia divenne sabbia, e la strada bagnata una lunga linea di fango.
Attraverso il parabrezza, si vedevano solo ondate di fango che si riversavano sull’automobile con devastante irruenza. Ma Lui non se ne curava. E Fior era zitto da tempo.
Lui non gli aveva risposto. Fior aveva perso la pazienza, ma non la pazienza di aspettare la risposta, la pazienza di ascoltarla. E si era rassegnato a guardarsi i piedi.
- Senti, Fior...
- Eh? - la sua voce era distante e patetica, immersa in un sonno fatto di forme in movimento. Stavolta, Fior scacciò in anticipo la visione.
- Io so che stai male.
- Io sto benissimo!
- Guardati la pancia.
Fior vide che la sua pancia era squarciata da un grande buco.
- Cos’è!!?? - l’urlo si confuse con l’agonia, l’agonia con la morte, la morte con la lancinante illuminazione.
La lancinante illuminazione trafisse i sensi, tutti, anche quelli repressi, latenti, e si confuse con una sagoma, la stessa, la stessa di sempre, sempre più nitida fino ad apparire un gioco rigido e statico di contrasti, di bianco e nero, talmente rigido da far male agli occhi.

Quando riaprì gli occhi, dopo ore di sonno, e dopo altre ore di sforzo enorme per muovere quei piccoli muscoli, paralizzati dall’eccesso, vide che era tutto bianco.
Oltre la distesa di bianco, immacolato e irreale, c’era una sagoma più scura che si stagliava sullo sfondo.
Fior mosse il primo passo, e, se all’apparenza non sembrava esistesse nulla, avvertiva qualcosa di solido e concreto sotto i piedi, una sensazione stranissima, che scomparve e divenne parte stessa della confusione che lo conduceva verso la sagoma.
Quando si avvicinò alla sagoma dai lineamenti offuscati, questa lo riconobbe. E gli parlò.
Lui non capì nulla, non riusciva ad udire nessun suono, un prurito irritante alla base del collo, la sensazione di non sentire e non sentirsi. Tentò di muovere qualche muscolo facciale, ma non vi riuscì.
La sagoma smise di parlare, e finalmente potè riconoscerne il volto.
Era Lei.

Aprì di nuovo gli occhi, e rivide Lui accanto a sé. Erano fermi accanto a una strada abbandonata in pieno deserto. La Luna spuntò così improvvisamente che sembrò aver spiccato un salto. Poi gli sembrò di vedere una stanza da letto abbastanza spartana: un armadio, un letto coperto da un federa gialla e nera, disegni irregolari e inintelligibili su un fondale giallo neutro, e sopra il letto, immersa in un sonno profondo e caldo che l’abbracciava, c’era Lei.
Quando rialzò il volto, vide che la Luna diventava sempre più grande, si gonfiava quasi fosse in procinto di esplodere.
Poi scomparve del tutto.
Vide una piuma svolazzare alla sua estrema destra. Si girò verso quella, ma era già sparita. Poi, abbacinante, venne l’illuminazione: era polvere. Quello che gli era rimasto tra le mani, dopo il sacrificio, dopo aver fissato a lungo la luce meravigliosa e splendida del pinnacolo, per poi conoscerne la falsità. Polvere, e chilometri nelle ruote, e buchi nella pancia, e la verità tra le mani.
Invidiò per un istante l’illusione di quelli dall’altra parte, che non avevano visto, che non avevano sofferto, o che se lo avevano fatto non erano riusciti a riprendersi il dolore e mangiarselo, digerirlo e viverlo, prendendolo come punizione, ma come un dono. Un dono di immensa gratitudine, immensa e mortale. Non avevano respirato la polvere, non l’avevano mangiata, non ne avevano i polmoni pregni. Perché chiamare alla mente il Pensiero, e incontrare gli Occhi, e planare sulle Labbra, e cadere di nuovo negli Occhi, e scivolare sui Capelli, era tornare alla Polvere.
Dov’era la strada che poco prima si stendeva sotto i suoi piedi, e l’Uomo che l’aveva accompagnato lì, attraverso una cascata di fango, un sogno vero e tangibile?
La Calotta di Stelle sopra restava immobile. Come se il tempo si fosse fermato. Poi, Lui c’è. Poi, di nuovo scompare.
Tutto è di nuovo bianco.
Avanzò barcollando. guardò oltre una collina, comparsa all’improvviso, come modellata dal vento, dono di polvere: il sole appena sorto convinse anche le ultime brume a scomparire, e loro, dopo le numerose ore trascorse appese in aria, visibili come fantasmi, si persuasero che forse era tempo di coricarsi.
Oltre la Collina, tutto era luce. Era anche più bianco di quel Bianco. E lui si incamminò nella luce.
E quando, poco dopo, ne uscì, c’erano dei bambini.
Giocavano, saltellavano attorno alla loro orbita inesistente. Fior rimase con le braccia distese lungo i fianchi. Guardava.
Poi un uomo, dall’altra parte, lo salutò.
Era Se Stesso.
Accanto c’era Lei.
Lui sorrideva. Lei sorrideva.
Lui salutava. Lei salutava.
Lui la amava. Lei lo amava.

Quando la Collina scomparve, i bambini corsero verso di lui: l’ultimo bimbo, il più piccino, gli passò attraverso. Poi, pochi metri dopo, si fermò a fissarlo, in volto un’espressione stranita. Fronte corrucciata, occhi a fessura: adirato o incuriosito, forse entrambi.
Il sorriso illuminò finalmente il faccino paffutello del bambino che iniziò a salutare. Corse via ridendo, su un terreno che non esisteva, ma che andava in salita.



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