No, per carità, non mi ha fatto schifo, ma dovevo attirare la vostra attenzione...
Come ormai avrete capito, stavolta si parla di Cars, ultimo partorito di casa Pixar, diretto dal grande John Lasseter, fondatore dello Studio (ricordiamo che la Pixar fino a maggio 2006 è stato uno Studio autonomo i cui prodotti venivano distribuiti e pubblicizzati dalla Disney: solo da pochi mesi, la Pixar ne è diventata una sussidiaria), nonchè grande storyteller, come le sue precedenti prove (Toy Story 1&2 e A Bug's Life) hanno dimostrato.
Cars muove dal solco tracciato da un film del 1991, Doc Hollywood, storia di ritorno all'umiltà di un giovane e ricco chirurgo californiano capitato per caso in una cittadina nel mezzo del nulla, e, ivi costretto a rimanere per ripagare la comunità della devastazione arrecata durante il burrascoso arrivo, riscopre i valori, l'umiltà e, soprattutto, l'amore. Da questo grande precedente, che ha prodotto e produrrà cloni a non finire, Lasseter costruisce un film che trasforma un plot tanto abusato in una godibilissima e divertentissima favola in salsa automobilistica.
Come da tradizione Pixar, la confezione è delle più appetibili: il grandioso lavoro dei grafici dello Studio ha portato alla vita un mondo in bilico tra realismo e caricatura, dimostrando ancora una volta la profonda attenzione all'aspetto puramente visivo del tutto (e qui molti degli odierni cartoon in CGI dovrebbero solo imparare). Questo realismo cartoonesco vi porterà a guardare le distese sconfinate della contea di Carburator con profonda suggestione, e mai la leggendaria Route 66 vi sarà sembrata tanto reale e palpitante. Questa medesima attenzione all'aspetto tecnico si rispecchia nel ritmo che, malgrado i sussulti iniziali, scorre liscio fino alla fine, nella sapiente regia, e nel suono, perfettamente progettato; un po' meno "sul pezzo" la colonna sonora, in fin dei conti abbastanza anonima.
Capitolo a parte, i personaggi, tutti ben costruiti a partire dai loro archetipi, forse questa volta troppo marcatamente ereditati dal modello disneyiano: quello che sconta di più questo difetto è il "nostrano" Luigi, tipico esempio di tocco-etnico-via-stereotipo+tormentone annesso (diciamo che l'adattamento italiano ha colto due piccioni con una fava sfruttando il personaggio-tormentone del comico Marco Della Noce), ma l'effetto è senz'altro molto divertente. Ma è qui che probabilmente si apre lo spiraglio verso quella che probabilmente è la colpa più grave di Lasseter: l'eccessiva disney-zzazione del prodotto, l'essersi lasciato andare troppo agli stereotipi, tralasciando la trimensionalità" dei personaggi dei precedenti film made-in-Pixar, caratteristica che era valsa allo Studio plausi di pubblico e critica. Se l'esperimento di Lasseter era, come spero, quello di una 'riforma', di un prendere gli stereotipi (e qui possiamo considerare il plot stesso uno stereotipo), scuoterli e innovarli, allora l'esperimento si può dire solo parzialmente riuscito.
Insomma, Cars, come dicevamo, è un film godibilissimo, ben realizzato e divertente. Un leggero passo indietro per la Pixar, a dirla tutta, ma speriamo che sia solo la rincorsa per un salto ancora più ampio nel futuro: all'orizzonte ci sono Ratatouille e Toy Story 3.
domenica 27 agosto 2006
Cars: Motori Struggenti...
giovedì 24 agosto 2006
"... io sono ancora Superman!"
La sensazione più strana che si ha all’uscita di Superman Returns è la completa soddisfazione, probabilmente molto più vicina a una serena sazietà piuttosto che a uno stantio appagamento dei sensi. Superman Returns soddisfa praticamente ogni angolo del palato, con un’unica, lunga e portentosa forchettata di azione, sentimento, divertimento (in ogni senso), pathos ed epos. Allora mi direte, dov’è la stranezza in una simile sensazione? La stranezza starebbe se non fosse strano sentirsi così, una volta ogni tanto.
Innanzi tutto, Superman Returns è un grande film. Dal punto di vista prettamente tecnico, è praticamente ineccepibile. Sceneggiatura solida, bei dialoghi, caratterizzazioni azzeccate, fotografia (grazie alle magie del digitale) straordinariamente elegante, montaggio e ritmo a prova d’orologio, regia sontuosa e insieme intima, musica toccante e magnifica, recitazione di livello.
E poi, il talentuosissimo trio Singer-Harris-Dougherty ha davvero messo sul tavolo ciò che ogni fan di buon cinema, ogni appassionato di buone storie e, in particolar modo, ogni fan dell’Azzurrone desiderebbe gustare: un Superman davvero Superman, non l’ombra del personaggio tratteggiata qua e là a tentoni negli ultimi anni (con le dovute eccezioni, certo), ma un’icona, un simbolo di speranza, un meraviglioso e statuario dio-uomo (qualche accostamento a Cristo non ce lo facciamo mancare, visto che il film stesso in qualche tratto ce lo consente), capace di amore, profondo e quasi disperato, di rabbia, e anche di autoironia. Pochi giorni fa, sul suo blog, l’amico Fabio Graziano lamentava il tradimento, avvenuto degli ultimi tempi, della Gestalt supereroistica classica da parte di molti autori nei confronti dei personaggi DC: ebbene, il Superman qui egregiamente dipinto è proprio ciò che si sarebbe sempre dovuto fare del personaggio nei fumetti, nei telefilm, ovunque. Un personaggio allo stesso tempo eterno e nostro, mitico eppure reale, che nel suo profondo credo nel bene, nel mantra del riconoscere la predisposizione al bene di ogni singolo essere, del suo costituire la luce che illumini la via dell’umanità, trova la fonte del suo sempre magnifico potere, del suo essere Superman. E Brandon Routh ha saputo rendere alla perfezione un personaggio all’apparenza tanto semplice da impersonare, anche seguendo le tracce del suo compianto predecessore, Christopher Reeve.
La sorpresa davvero notevole di questo film è il suo occhio umano, Lois Lane, impersonata dall’incantevole Kate Bosworth. Dietro a un’apparente sicurezza d’acciaio, che esplode nella sua caparbietà di giornalista d’assalto, Lois nasconde un cuore di panna, di madre attenta e affettuosa, e di donna divisa tra due grandi amori, o meglio profondamente turbata dal ribussare alla porta di un amore, quello per Supes, ormai lasciato alle spalle (ottimo input per farci vedere il lato dell’Azzurrone più struggentemente umano), e dal conseguente “incendio estinto” di una passione in rinascita: e qui anche l’Uomo d’Acciaio deve fare i conti con un mondo che cambia, un mondo che forse può fare a meno di lui. Ma, come diceva Kennedy, più le cose cambiano, più rimangono le stesse.
Grande film, insomma, dalla grandeur epica e dalla forte eredità Silver Age, profondo ed emozionante come pochi, e che lascerà indubbiamente il suo segno nel cinema fantastico degli anni a venire.