"L'adolescenza è un'età di tentativi, non tutti congrui, non tutti fortunati. Questo lo sappiamo da sempre, almeno da quando gli adolescenti eravamo noi, inquieti e muti, pericolosi e in pericolo. Non tutti "bulli", non tutti a rischio, però diffidenti del buon senso dei grandi, questo sì. E avidi di esperienze, questo pure, con i sentimenti tesi a tutto tranne che alle raccomandazioni dei genitori.
Se però oggi i frequenti (e non nuovi) derangiamenti dei ragazzini sembrano destare un'angoscia speciale, e il cosiddetto bullismo figura sui giornali come un fenomeno quasi epidemico, forse è perchè qualcosa è cambiato, radicalmente cambiato, non tanto nelle piccole e mutevoli società dei minori, assembramenti occasionali e veloci, quanto nella grande e strutturata società degli adulti.
Che cosa è cambiato? Per dirla bruscamente, è saltato il meccanismo che regola il rapporto tra i diritti e i doveri. O meglio ancora, tra i desideri e il loro limite [...]. La moltiplicazione dei desideri, del nostro mondo, è contagiosa, esponenziale e strutturalmente vitale per la moltiplicazione dei consumi.
Ognuno di noi, sperimenta su se stesso e ancora più sui figli, se ne ha, l'enorme difficoltà di introdurre, in questo meccanismo rotto, un calmiere, un contrappeso etico. Se l'aggressività dei minori ci spaventa più di quanto è fisiologico, questo dipende, io credo, dal fatto che la paura si manifesta per causa loro, ma non è paura di loro: è la paura - profondissima - di avere perduto in parte gli strumenti per affrontarla. È la paura di avere reso inarticolato il linguaggio dei meriti e dei demeriti, dei doveri e dei limiti, in un paesaggio sociale che letteralmente esplode di stimoli a desiderare e a possedere. In fretta. Adesso. Subito.
Per questo oscilliamo, incerti e preoccupati, tra rigurgiti punitivi che sentiamo necessari, e il dubbio che la puniione, anche se giusta, sia la goffa e occasionale ricucitura di uno sbrego così enorme, così irreparabile, che nel frattempo la diga è già crollata. Mentre la città scintilla di vetrine esorbitanti, eros a portata di mano, identità e modelli aggressivi e "di successo", e il mondo intero pare un infinito reticolo di scorciatoie identitarie, fisionomie virtuali, di trucchi per sembrare qualcuno a buon mercato, noi balbettiamo spesso, e con scarsa convinzione, le regole della rettitudine. Con il terrore (tipicamente d'epoca) di sembrare moralisti, per l'evidente, clamoroso scarto tra l'invito a contenersi e un mondo esterno (spesso anche familiare) che si è dato parametri di incontenibilità e incontestabilità: avere di più, sembrare di più, desiderare di più.
È quasi ovvio che questa vera e propria bulimia esistenziale, che già molti adulti riescono a governare con difficoltà, produca effetti incontrollabili nei ragazzini, la cui natura anagrafica è già di per sè portata ad avere fretta di crescere e fretta di essere. E in questo, almeno in questo, le nostre adolescenze furono diverse: l'idea che ci fosse, per crescere, un tempo fisiologico, maledettamente lungo ma insormontabile, da percorrere tutto intero, era per noi molto chiara. La politica, per la mia generazione, fu sì un potente acceleratore formativo (come la guerra per i nostri padri, assai meno fortunati), ma era comunque intesa come un percorso, come un divenire. Ora per i ragazzi l'ansia di crescere, di diventare grandi e forti, potenti e ammirevoli, è diventata un'illusione quotidiana, la tentazione di ogni minuto, a portata di pubblicità, di pantaloni firmati, di chat, di rete che diventa (vedi il caso di Tonino [il ragazzo down malmenato in un video diffuso su internet, NdP)) un facile battesimo per ogni genere di "successo".
Questa distruzione del tempo, il lungo tempo che lentamente plasma e le persone e riempie le loro vite, è la voragine dentro la quale abbiamo vedere scomparire i più fragili tra i nostri figli. Non riusciamo più a spiegare loro la gradualità del "successo" (che piace a tutti, a noi per primi: ma per definirlo, per capirlo, serve anche capire la fatica che costa), la gioia oscura dell'attesa, la differenza tra il facile che è l'ovvio, e il difficile che è il suo contrario. Vacilliamo nel ruolo di autorevoli indecisi, di amichevoli inermi, che ci siamo dati anche nel timore di ripetere modelli barbogi e ottusi di tante vecchie famiglie, che credevano di esaurire nel divieto e nella durezza il compito faticosissimo dell'amore. Pure, qualcosa di differente dovremmo provare a dire, a fare.
Tirarli per le bretelle, magari, i nostri pidocchi, e dirgli "aspetta, prova ad aspettare". Impara ad aspettare. Fai fatica ad aspettare. Tutto o quasi arriva prima o poi, se hai la forza di aspettarlo. Non c'è crimine, adulto o ragazzino, dei nostri giorni, che non abbia per fondamentale movente la tentazione orribile, falsa, del "tutto e subito". Era lo slogan dei rivoluzionari che fummo. È diventata la legge del Paese dei Balocchi. L'unico modo per tornare a essere rivoluzionari è violarla: non tutto, non subito."
Se però oggi i frequenti (e non nuovi) derangiamenti dei ragazzini sembrano destare un'angoscia speciale, e il cosiddetto bullismo figura sui giornali come un fenomeno quasi epidemico, forse è perchè qualcosa è cambiato, radicalmente cambiato, non tanto nelle piccole e mutevoli società dei minori, assembramenti occasionali e veloci, quanto nella grande e strutturata società degli adulti.
Che cosa è cambiato? Per dirla bruscamente, è saltato il meccanismo che regola il rapporto tra i diritti e i doveri. O meglio ancora, tra i desideri e il loro limite [...]. La moltiplicazione dei desideri, del nostro mondo, è contagiosa, esponenziale e strutturalmente vitale per la moltiplicazione dei consumi.
Ognuno di noi, sperimenta su se stesso e ancora più sui figli, se ne ha, l'enorme difficoltà di introdurre, in questo meccanismo rotto, un calmiere, un contrappeso etico. Se l'aggressività dei minori ci spaventa più di quanto è fisiologico, questo dipende, io credo, dal fatto che la paura si manifesta per causa loro, ma non è paura di loro: è la paura - profondissima - di avere perduto in parte gli strumenti per affrontarla. È la paura di avere reso inarticolato il linguaggio dei meriti e dei demeriti, dei doveri e dei limiti, in un paesaggio sociale che letteralmente esplode di stimoli a desiderare e a possedere. In fretta. Adesso. Subito.
Per questo oscilliamo, incerti e preoccupati, tra rigurgiti punitivi che sentiamo necessari, e il dubbio che la puniione, anche se giusta, sia la goffa e occasionale ricucitura di uno sbrego così enorme, così irreparabile, che nel frattempo la diga è già crollata. Mentre la città scintilla di vetrine esorbitanti, eros a portata di mano, identità e modelli aggressivi e "di successo", e il mondo intero pare un infinito reticolo di scorciatoie identitarie, fisionomie virtuali, di trucchi per sembrare qualcuno a buon mercato, noi balbettiamo spesso, e con scarsa convinzione, le regole della rettitudine. Con il terrore (tipicamente d'epoca) di sembrare moralisti, per l'evidente, clamoroso scarto tra l'invito a contenersi e un mondo esterno (spesso anche familiare) che si è dato parametri di incontenibilità e incontestabilità: avere di più, sembrare di più, desiderare di più.
È quasi ovvio che questa vera e propria bulimia esistenziale, che già molti adulti riescono a governare con difficoltà, produca effetti incontrollabili nei ragazzini, la cui natura anagrafica è già di per sè portata ad avere fretta di crescere e fretta di essere. E in questo, almeno in questo, le nostre adolescenze furono diverse: l'idea che ci fosse, per crescere, un tempo fisiologico, maledettamente lungo ma insormontabile, da percorrere tutto intero, era per noi molto chiara. La politica, per la mia generazione, fu sì un potente acceleratore formativo (come la guerra per i nostri padri, assai meno fortunati), ma era comunque intesa come un percorso, come un divenire. Ora per i ragazzi l'ansia di crescere, di diventare grandi e forti, potenti e ammirevoli, è diventata un'illusione quotidiana, la tentazione di ogni minuto, a portata di pubblicità, di pantaloni firmati, di chat, di rete che diventa (vedi il caso di Tonino [il ragazzo down malmenato in un video diffuso su internet, NdP)) un facile battesimo per ogni genere di "successo".
Questa distruzione del tempo, il lungo tempo che lentamente plasma e le persone e riempie le loro vite, è la voragine dentro la quale abbiamo vedere scomparire i più fragili tra i nostri figli. Non riusciamo più a spiegare loro la gradualità del "successo" (che piace a tutti, a noi per primi: ma per definirlo, per capirlo, serve anche capire la fatica che costa), la gioia oscura dell'attesa, la differenza tra il facile che è l'ovvio, e il difficile che è il suo contrario. Vacilliamo nel ruolo di autorevoli indecisi, di amichevoli inermi, che ci siamo dati anche nel timore di ripetere modelli barbogi e ottusi di tante vecchie famiglie, che credevano di esaurire nel divieto e nella durezza il compito faticosissimo dell'amore. Pure, qualcosa di differente dovremmo provare a dire, a fare.
Tirarli per le bretelle, magari, i nostri pidocchi, e dirgli "aspetta, prova ad aspettare". Impara ad aspettare. Fai fatica ad aspettare. Tutto o quasi arriva prima o poi, se hai la forza di aspettarlo. Non c'è crimine, adulto o ragazzino, dei nostri giorni, che non abbia per fondamentale movente la tentazione orribile, falsa, del "tutto e subito". Era lo slogan dei rivoluzionari che fummo. È diventata la legge del Paese dei Balocchi. L'unico modo per tornare a essere rivoluzionari è violarla: non tutto, non subito."
Michele Serra, La Repubblica del 19/11/2006
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